Biblioteche di Genova  »  Pillole di Genovese
Berio

Pillole di Genovese

Il mugugno perfetto

Il mugugno è un’espressione di scontento e di protesta prolungato e angoscioso che viene espresso a voce bassa, a denti stretti, alla presenza di altre persone.

Non è un lamento o una lagnanza personale ma è riferito ad una situazione o a fatti esterni di segno negativo che sono di dominio pubblico.

Per questo motivo possono interessare e coinvolgere qualcuno che condividendo la protesta, pronuncia ad un certo punto ad alta voce, la frase: “è vero”.

Da qui parte un bel mugugno che si diffonde coinvolgendo a catena molti degli astanti in un crescendo di critica condivisa e duratura.

Questo è il mugugno perfetto genovese dei giorni nostri.

La nascita del primo mugugno invece si perde nella notte dei tempi perché si rifà allo Ius Murmurandi di origine latina.

Il primo riferimento scritto intorno al diritto al mugugno è riportato nei documenti della Magistratura dei Conservatori del mare quando fu concesso ai marinai di Camogli di poter lavorare "lamentandosi" e prevedendo due tipi di contratti di ingaggio:

il primo prevedeva paga più elevata ma nessun diritto a lamentarsi

il secondo invece era più basso ma prevedeva la possibilità del mugugno di fronte agli ordini (che venivano comunque eseguiti dopo essere stati "discussi")

Nacque così, da una consuetudine marinaresca, il tipico mugugno genovese che si estese pian piano a tutta la città e poi all'intera Liguria.

La "sbira" e gli sbirri

La specialità della casa era la “sbira” ovvero una minestra di trippa arricchita da molti sapori (alloro, sedano carota ecc.), ma la casa non era un ristorante stellato: era la prigione.

Nel medioevo a Genova le guardie carcerarie venivano addestrate vicino all'Oratorio di Sant'Antonio, denominato “Biri”, e preparavano un piatto semplice ma completo da destinare a se stessi e ai carcerati: quella trippa speciale nota come sbira.

L'Oratorio dunque creò nuovi vocaboli derivanti dal suo nome: sia il gustoso piatto chiamato sbira che il termine con il quale ancora oggi, in modo assai colorito, si individuano gli agenti di polizia: gli sbirri.

La sbira per i carcerati era un piatto di tutti i giorni, ma per l'ultimo pasto prima dell'esecuzione, la portata era più abbondante e gustosa per soddisfare l'ultimo desiderio della vita.

Era molto saporita, nutriente ed apprezzata dai camalli del porto, tanto che le tripperie nel tempo si moltiplicarono e le locande e le trattorie, non solo dei caruggi, offrivano le loro speciali trippe ai loro ospiti.

Gli odori della nostra memoria

Le nostre emozioni sono suscitate da tutti i sensi, anche in assenza di immagini concrete: dall'olfatto che ci ricorda un odore, gradevole come un profumo, a una persona, a un animale, un oggetto, un ambiente o una particolare circostanza.

Esiste dunque una memoria degli odori che, più è antica, più ci sorprende e che, quando emerge, riesce a riprodurre la situazione vissuta in origine.

E, fra tali odori, alcuni sono comuni a molti, altri appartengono solo a noi per la specialità della sua fonte.

Fra gli odori comuni cito per primo quello particolare ed acre del nostro centro storico, dei nostri caruggi e delle nostre piazzette.

Quando lasciate il centro più moderno di Genova per penetrare nei vicoli del centro storico, il respiro dell'antichità dei luoghi vi pervade: profumo di fiori, di verdure, di muri ammuffiti dall'umidità, di muschio atavico, di minestrone alla genovese e di lasagne al pesto, di focaccia, di caffè; odore di salsedine, pesce, fritti, farinata e banane che ancora oggi impregnano i muri delle vecchie case.

E allora vi sovviene la prima volta che siete entrati in quell'antico mondo e, per chi ci è nato, appare d'incanto tutta la sua infanzia.

Ma tanti sono gli odori che sollecitano la nostra memoria: sono i profumi della nostra vita!

Casa del Romano, una storia che sembra una leggenda

Il Monte Antola, con i suoi 1.597 metri, è la “montagna dei genovesi”, una delle montagne più note e frequentate dell’Appennino Ligure. L'ideale punto di partenza per raggiungerla si trova vicino alla località Casa del Romano, frazione del più alto Comune della Liguria, Fascia, un importante crocevia posto sulla linea di valico, a cavallo delle valli Borbera e Trebbia.

Lì a 1.406 metri la storica trattoria Casa del Romano, da centocinquanta anni è punto di sosta e ristoro per i tanti escursionisti a piedi o a cavallo, e per i cercatori di funghi.

La sua antica presenza solitaria, in cima al monte, è avvolta da un alone di leggenda intorno alla domanda: perché una casa proprio lassù?

Il posto è stupendo, da alta montagna, con una natura incontaminata e selvaggia in un contesto, quello del Parco dell’Antola, che rappresenta l’area meno popolata dell’Italia.

Di notte, nell’assoluto silenzio circostante, si sentono solo le voci degli animali che vagano sotto un cielo di stelle unico per bellezza.

Un posto pieno di storia, anche triste, e davvero leggendario.

Lunâio do Sciô Regìnn-a do 1835 - A prefaçion

Giorgio Oddone, coordinatore del Gruppo di Lettura in Genovese della Berio, legge per noi un brano tratto dal "Lunâio do Sciô Regìnn-a do 1835 - A prefaçion" (Lunario del Signor Regina del 1835 - La Prefazione) del poeta genovese Martino Piaggio.

"A riçètta pe fâ i ravieu" - "E lazàgne" - "A tórta pasqualìnn-a"
Eccoci al secondo appuntamento con le "Pìloe de zeneize": Giorgio Oddone oggi legge alcune poesie del poeta genovese Martino Piaggio:

  • "A riçètta pe fâ i ravieu" (La ricetta per fare i ravioli)
  • "E lazàgne" (Le lasagne)
  • "A tórta pasqualìnn-a" (La torta pasqualina)

Noi non vediamo l'ora di ascoltarlo e voi? e chissà che non ci dia qualche idea per il pranzo di Natale !!!!

Lunâio do Sciô Regìnn-a do 1876 - A prefaçion

Il nostro caro amico Giorgio Oddone, coordinatore del Gruppo di Conversazione in Genovese della Berio, oggi ci regala una piacevole lettura tratta dal:

"Lunâio do Sciô Regìnn-a do 1876 - A prefaçion" (dal Lunario del Signor Regina del 1876 - La Prefazione)

"Un travàggio fæto bén" ed "E grondànn-e"

Giorgio Oddone oggi ci legge due brani molto divertenti: una sua poesia dal titolo "Un travàggio fæto bén" (Un lavoro fatto bene) e un sonetto del poeta Martino Piaggio dal titolo "E grondànn-e" (Le grondaie)

Siamo molto curiosi di ascoltare Giorgio che in questo video dal titolo "Perché parlo zeneize" ci racconta le forti motivazioni che lo inducono a parlare in genovese.

Il nostro amico Giorgio Oddone oggi ci racconta: "A Zena ch'a no gh'é ciù" - La Genova che non c'è più, purtroppo

La pillola di oggi ci porta indietro nel tempo e racconta la storia amara di "Stradda Maddre de Dio" - Via Madre di Dio

Eccoci all'ottavo video dedicato alla lingua e alla storia della nostra città: oggi Giorgio Oddone ci parla di una signora nata nel 1804 che ancora oggi è nel cuore dei genovesi

"A colònna infâme de Nervi" - La colonna infame di Nervi 

Giorgio Oddone ci porta indietro negli anni, a fine Ottocento, per raccontarci la storia affascinante e sbiadita dal tempo della colonna infame di Nervi. 
 

Prefaçion a-o lunâio do Sciô Regìnn-a do 1820

Eccoci al decimo appuntamento dedicato alla lingua e alla storia della nostra città; nella "Pillola di Genovese" di oggi, dedicata al poeta Martin Piaggio, Giorgio Oddone ci legge la:
"Prefaçion a-o lunâio do Sciô Regìnn-a do 1820"
"Prefazione al lunario del Signor Regina (Martino Piaggio) del 1820. Un augurio per il nostro 2021".

Amadeo Peter Giannini, il "banchiere gentiluomo" 

La "Pillola di Genovese" di oggi ci racconta la vita di un uomo generoso, onesto, un personaggio grandioso e attualissimo, di origini liguri, figlio di immigrati e sempre a fianco degli immigrati per aiutarli a migliorare il proprio destino e quello dei figli. 
La sua storia è anche il resoconto dei risultati che possono dare l’impegno, l’attenzione agli altri, l’apertura alla cultura e alla scienza.... un insegnamento per affrontare i tempi difficili che stiamo vivendo ....buona visione!!!! 

“O còlera” (Il coléra) tratto dal Lunario del Signor Regina del 1835, di Martin Piaggio

Nella Pillola di Genovese di oggi Giorgio Oddone ci parla di una epidemia del passato che presenta aspetti in parte assimilabili a quelli dell’attuale pandemia Covid-19 con cui stiamo tristemente convivendo ormai da un anno.
Si tratta di un brano tratto dal Lunario del Signor Regina del 1835, di Martin Piaggio “O còlera” (Il coléra)

Intorno al 1830 il colera si diffuse in Europa e in buona parte delle grandi città italiane. Gli Stati impegnati nei traffici commerciali con altre nazioni istituirono cordoni sanitari marittimi e definirono i giorni di quarantena per le imbarcazioni provenienti da zone infette e sospette. Furono adottate leggi che punivano con la morte tutti coloro che violavano i cordoni marittimi e terrestri e che aggiravano le disposizioni sanitarie. Solo Genova, Livorno e Venezia esitarono a prendere provvedimenti poiché il blocco dei commerci marittimi avrebbe gravato sulla loro economia. Appoggiarono perciò teorie che accusavano l'aria malsana, la sporcizia e la cattiva alimentazione piuttosto che il contatto.
I cordoni sanitari portarono in rovina tutte quelle famiglie che si reggevano su lavori agricoli stagionali che comportavano lunghi spostamenti, o sui commerci di derrate trasportate dalle aree di produzione ai mercati di consumo e alle fiere. Per superare i cordoni marittimi le navi dovevano arrestarsi a distanza di sicurezza dal litorale, il responsabile dell'imbarcazione con una scialuppa si avvicinava alla costa per esibire la patente sanitaria al ministro della sanità e per giurare solennemente che nessuno a bordo fosse infetto. La patente veniva prelevata con una pinza e se ne verificava il contenuto: se il bastimento era ritenuto infetto o sospetto non veniva ammesso l'approdo pena la morte. Le lettere e i documenti venivano affumicati con un “suffumigio”, un fumo contenente zolfo, e poi immersi nell'aceto.
Il 27 luglio 1835 il cordone fu rotto da qualche contrabbandiere e l'epidemia cominciò a diffondersi da Nizza verso Torino e Cuneo. Il 2 agosto il colera scoppiò a Genova.

“I doî avâri” (I due avari) di Martin Piaggio

Giorgio Oddone legge per noi oggi “I doî avâri” (I due avari), una divertentissima poesia di Martin Piaggio (1774-1843) che ci fa conoscere due personaggi avari all’inverosimile, Pignasecca e Pignaverde. Molte saranno le loro reciproche esibizioni di tirchieria, durante un pasto in piedi accanto ad una tavola senza posate, senza bicchieri e senza sedie.
Pignasecca raggiunge l’apice della tirchieria nel redigere il suo testamento - scritto, per risparmiare inchiostro, con tratto sottile, senza virgole né accenti, né puntini sulle “i” - che istituisce se stesso quale erede universale!
Questi personaggi furono così noti all’epoca da contribuire alla diceria che i genovesi fossero avari (noi diciamo parsimoniosi) e ad essi Emerico Valentinetti si ispirò per la commedia “Pignaverde e Pignasecca” portata al successo dal grande Gilberto Govi.

Sapevate che l'Eneide è stata tradotta in genovese?

Non perdete questo video: Giorgio Oddone legge:
"Eneide. Ricordi di un reduce troiano in dialetto genovese", un'opera umoristica e sarcastica piuttosto fedele al testo di Virgilio che espone al pubblico ludibrio personaggi dell'epoca che meritavano di essere messi alla berlina.
Autore è quel Nicolò Bacigalupo, nato a Genova nel 1837, fecondo autore dialettale noto per la commedia "I maneggi per maritare una figlia" portata al successo da Gilberto Govi. Il testo è illustrato da Pipein Gamba, detto anche Pipinus da Modona, il cui vero nome è Giuseppe Garuti.
Bacigalupo scrisse in dialetto anche poesie (di una certa notorietà i sonetti dedicati alla Riviera Ligure) ed è autore del sempre attuale “Canto da rumenta” dal quale hanno attinto in tanti, da Marzari a Petrucci a Piero Parodi.

A questo link trovate le opere di Nicolò Bacigalupo in Biblioteca

"Eneide. Ricordi di un reduce troiano in dialetto genovese" di Nicolò Bacigalupo

Continua con la seconda puntata la narrazione di Giorgio Oddone dell'Eneide in genovese. Il grande cavallo di legno è sempre di fronte a Troia e tutti i troiani fanno a gara per capire se costituisce un'insidia oppure se è un regalo dei Greci che ormai hanno lasciato la città assediata. In realtà i Greci hanno finto di allontanarsi e si sono nascosti in un'isola vicina, simile a quella di Bergeggi, pronti a ritentare l'assedio. I pareri degli astanti sono discordi. A ingannare i Troiani interviene il greco Sinone, fattosi catturare appositamente per convincerli ad accettare il cavallo come un regalo. I troiani ora sono convinti e il simulacro viene introdotto in città. Mentre i troiani dormono dopo aver festeggiato la vittoria, dal ventre del cavallo escono i guerrieri greci: la trappola è scattata. 

"O naofràggio da Lòndòn Valour" - Il naufragio della London Valour

Il 9 aprile 1970 in seguito ad una terribile mareggiata la bulk carrier London Valour, ormeggiata per lavori al di là della diga foranea, si disancora e sbatte contro gli scogli spaccandosi. Una tragedia terribile in cui perirono 18 persone fra le quali la moglie del comandante che si lasciò cadere, stremata, da una cima lanciata da terra verso la nave per recuperare i naufraghi. Moltissimi genovesi assistettero impietriti alla tragedia che si consumò sotto i loro occhi. La nave ha subito successivamente un secondo naufragio: si è inabissata, ormai un relitto, durante il traino finale verso il largo; giace adesso a 2.600 metri di profondità, 90 miglia al largo di Genova. Oggi la campana della nave è conservata presso la Chiesa Anglicana di piazza Marsala. Fabrizio De Andrè ha dedicato a questo triste evento la canzone "Parlando del naufragio della London Valour".

 

O naofràggio da nâve “Sirio”

La nostra "Pillola di Genovese" di oggi è dedicata al naufragio del piroscafo Sirio avvenuto il 4 agosto del 1906. La nave, salpata da Genova il 2 agosto, naufragò al largo della costa spagnola, nei pressi della Catalogna. I passeggeri erano circa 1200, il numero delle vittime fu di oltre 500, in gran parte emigranti italiani in viaggio per il Sud America, giovani uomini ma anche famiglie con bambini. Le commissioni di inchiesta imputarono la tragedia ad un errore umano ma non fu possibile chiarire perché la nave stesse navigando così vicino alla costa. Fu ipotizzato un traffico di emigranti clandestini. Il tragico naufragio ispirò una ballata popolare, conosciuta soltanto nel nord Italia, poi inserita da Francesco De Gregori nel suo album "Il Fischio del vapore". A quell'epoca i migranti eravamo noi e, come conclude Giorgio Oddone, "il passato non ci mostra mai abbastanza come non ripetere gli stessi errori".

 

"Anche i bàncomat àn in chéu  -  Anche i bancomat hanno un cuore"

La pillola di Genovese di oggi è all'insegna della fantasia e ci sorprende con una piacevole scenetta che vede protagonisti una signora che effettua un'operazione al bancomat e il bancomat stesso, che ha però la caratteristica di essere parlante e ....pensante!!! Un dialogo ironico, leggero e divertente che nasconde il desiderio che le macchine possano avere una loro autonomia ed agire in modo da porre rimedio ai torti e alle ingiustizie, rappresentando la soluzione definitiva di un problema presente dai tempi di Re Salomone !!! Un applauso agli interpreti Giorgio Oddone e Antonella Risso !!!

 

La Pillola di Genovese di oggi è dedicata ai bellissimi "laggioni" di Liguria, le piastrelle in ceramica smaltata - azulejos per gli spagnoli - utilizzate per il rivestimento di pareti e pavimenti di chiese ed edifici privati tra il Medioevo e il XVI secolo.
Importate prevalentemente dalla Spagna e in seguito prodotte dalle manifatture locali, le mattonelle dagli splendidi decori costituiscono una testimonianza importante del legame che univa l’antica Repubblica Genovese alle altre civiltà sulle sponde del Mediterraneo. In alcuni palazzi genovesi possono ancora essere ammirate queste splendide decorazioni policrome, come descritto nel volume
"Azulejos e Laggioni: atlante delle piastrelle in Liguria dal Medioevo al 16° secolo", che potete prendere in prestito in biblioteca.
https://bit.ly/2TnAB8X
Ma ora ascoltiamo Giorgio Oddone che ci racconta le vicende di questo ennesimo tesoro, che testimonia ancora una volta lo storico ruolo di Genova come sintesi di esperienze artistiche e protagonista di dialogo interculturale nel bacino del Mediterraneo.

La Pillola di oggi si intitola "I Camalli" ed è dedicata alla storia secolare di una corporazione che ha costituito il cuore pulsante del Porto di Genova ed il motore economico dell'intera Regione.

Il termine arabo "hammal", da cui deriva la nostra parola "camallo", è genericamente tradotto in italiano come facchino, letteralmente invece è "faticatore a spalla" e questa definizione rende con maggiore efficacia quella pesante attività. Si tratta di un mestiere che ha origini nel XIV secolo e non sempre è stato svolto da genovesi: fino al 1848 infatti i Camalli venivano in gran parte dalle Alpi bergamasche, i cui uomini erano ritenuti molto forti e robusti. In un antico statuto della Repubblica di Genova, l’origine bergamasca è citata come condizione indispensabile per entrare nella Compagnia dei Caravana, la corporazione medievale dei facchini del porto; nel 1952 La Caravana è entrata a far parte dell’attuale Compagnia unica del porto, più esattamente Compagnia unica fra i lavoratori delle merci varie (CULMV).

I camalli, quando ancora le macchine non erano presenti ad agevolare le fatiche dell’uomo, provvedevano a spalla al trasferimento delle merci dalla stiva della nave alle banchine; avevano il compito di depositare le merci presso il magazzino chiamato “raiba”, nome di origine araba da cui ha preso nome l’attuale piazza Raibetta in zona Caricamento.

Un lavoro manuale, monotono, per fare il quale occorreva solo una grande robustezza fisica ed una sopportazione non comune della fatica. Genova è stata retta, economicamente, per secoli dal lavoro dei camalli e questo li rendeva fieri. Questa fierezza viene rappresentata nel video con la testimonianza forte di un ex portuale che, attraverso una poesia, ci parla di un lavoro svolto con l'orgoglio e l'abnegazione dati dalla consapevolezza di essere importanti per l'intera comunità.

Il camallo forse più famoso fu Bartolomeo Pagano, conosciuto come Maciste, salito agli onori del cinema nel 1914 nel film “Cabiria”, dove mostrava la sua notevole forza sviluppata dopo anni come “camallo”.

Con la pillola di genovese di oggi, intitolata "A carétta", Giorgio Oddone ci descrive un gioco del tempo passato, che è rimasto nel cuore di chi lo ha vissuto.

Le carrette di cui si parla sono quelle che, negli anni '50 o giù di lì, quando le agognate biciclette erano ancora per molti un sogno, venivano costruite dai ragazzi delle periferie per essere usate nelle discese, in corse a rotta di collo, facendo gare in continuazione. I freni erano rigorosamente assenti. Si frenava con i tacchi delle scarpe. La fase più bella era quella della costruzione, bastava un manico di scopa e delle tavolette. La scopa si reperiva dalla mamma, il legno dagli scarti di lavorazione dei falegnami, i chiodi e il martello erano nella cassetta dei ferri di papà. Il componente più raro erano i cuscinetti, reperibili fra il rottame delle officine meccaniche, oltre ad un bel bullone di 6/7 centimetri con tanto di dado e rondelle. Alcune carrette, di forma rettangolare, avevano 4 ruote, altre solo 3 se i cuscinetti scarseggiavano, ed allora assumevano la forma triangolare. Questo era il caso delle carrette che scendevano da via Piantelli, a Marassi, zona carceri. Anche allora, come al giorno d'oggi, i ragazzini erano particolarmente abili nel fare arrabbiare gli adulti; infatti la rumorosa corsa veniva fatta nell'orario di riposo pomeridiano e questo inevitabilmente provocava rovesci d'acqua dalle finestre, dalle quali assonnate signore si affacciavano con grondanti catinelle nel mentre che vigili solerti minacciavano improbabili contravvenzioni. Era l'adrenalina dei ragazzi degli anni cinquanta e il calzolaio ringraziava per il grande lavoro che gli veniva procurato. Il particolare che le auto fossero scarsissime non è di poco conto.

Il video entra in punta di piedi in una delle più ricche chiese della città vecchia: Santa Maria di Castello. E' uno scrigno dall'aspetto sobrio che contiene all'interno ricchezze e meraviglie d'ogni specie. Quadri, affreschi, arazzi, statue, mobili spartani o riccamente intarsiati, colonne, capitelli, paramenti sacri, reliquie millenarie, ex voto, libri, abiti, teche, oggetti d'uso comune di 500 anni fa. Tutto racconta la storia e le testimonianze del nostro glorioso passato. Difficile scegliere da dove cominciare. Giorgio Oddone ha pensato di farlo dalla simbologia, focalizzando l'attenzione sulle immagini che ne rappresentano altre, che evocano diverse culture e storie lontane nel tempo e nello spazio. La scelta è caduta sulla pittura murale, non un affresco, di un'Annunciazione del 1451, dipinta da Giusto da Ravensburg, pittore fiammingo chiamato dalla famiglia dei mercanti di lana Grimaldi-Oliva, per abbellire la Chiesa dei frati Domenicani, a prova dei legami fra Genova ed il Nord Europa. Ogni dettaglio ha un recondito significato. In questo video proviamo a scoprirli e a spiegarli.

O Crìsto che ghe crésce i cavélli

Oggi Giorgio Oddone ci parla della Chiesa di Santa Maria di Castello che, oltre a custodire splendidi tesori, è una fonte inesauribile di bellissime storie. Fra queste quella del Cristo a cui crescono i capelli! A Castello infatti è custodito un Crocifisso ligneo, il Cristo Moro, che, fin dai tempi più remoti, ebbe molta importanza per i tanti fedeli che ottennero grazie per Sua intercessione. Questo Cristo però non è l'esemplare originale ma una copia e come talvolta accade, una copia è più bella dell'originale. Da questo scambio nasce la storia singolare di questa statua che ha sapore di leggenda ma che è invece una storia vera. Qui vogliamo render giustizia e onore al vero Cristo Moro della Chiesa di Santa Maria di Castello.

O Zenéize do Fabriçio De André

Lo spunto è un'intervista ad Andrea Camilleri, in cui il grande scrittore, sceneggiatore e regista, ha dichiarato che il genovese è il più musicale fra tutti i dialetti italiani. Certamente l’ascolto delle canzoni di De André ha contribuito in maniera determinante a formare questa qualificata opinione. In particolar modo Crêuza de mä, così particolare, unica, suggestiva ma incomprensibile, che inizialmente stenta ad essere accettata dal pubblico e dalla critica ma poi fa strage di premi e diventa un classico nella storia della canzone italiana d’autore. Proprio dall’esame di questa importante canzone parte l'analisi del genovese di De André, perché in essa l'artista ha profuso tutto il suo talento, la sua intelligenza e la sua capacità nello scrivere parole che per la loro musicalità si fondono come poche altre con quella degli strumenti. Crêuza de mä non è dedicata al genovese, né a Genova, ma al Mediterraneo. Una volta individuati gli strumenti musicali etnici che dovevano ricondurre all’atmosfera del bacino del Mediterraneo, dal Bosforo a Gibilterra, era necessario adattare i suoni che tali strumenti riproducevano ad una lingua che ci scivolasse sopra. Il genovese era la lingua adatta.

O Pandôçe

l Pandolce genovese non è semplicemente un dolce. Esso rappresenta una parte importante nella storia della nostra città a partire addirittura dai tempi delle Crociate. Gli scambi commerciali con il Medio Oriente che in quegli anni cominciavano a nascere, hanno fatto sì che tecniche orientali di canditura della frutta fossero recepite dai Genovesi, non solo banalmente per gustare ottime torte, ma anche perché, grazie alla lunga durata di conservazione, erano ideali per le preparazioni da utilizzare nei lunghi viaggi via mare. Quindi si parte dalla storia genovese di ottocento anni fa per giungere alla ricetta odierna, ottenuta attraverso elaborazioni successive che hanno visto anche il determinante intervento di Andrea Doria nel 1500.

Vitorìnn a Massano

La Pillola di oggi è dedicata a una giovane e intrepida motociclista genovese, classe 1934: Vittorina Massano, la “Fornarina da corsa”. Vittorina, figlia di un fornaio, andava a fare le consegne del pane guidando un sidecar. Così ha imparato ad andare in moto. Lo faceva correndo, motivo per cui era soprannominata la “fornarina da corsa”. Le corse le faceva davvero, già dall’età di 16 anni, ed era anche molto brava, fino ad essere inserita in un'importante squadra corse ufficiale, quella della Mondial. Allora le corse si facevano in salita, in circuiti cittadini, su strade ordinarie chiuse al traffico, con tante curve, spesso tornanti, che rappresentavano il più bel punto di osservazione dell’abilità dei piloti. I percorsi erano la Pontedecimo-Giovi, la Doria-Creto, la Recco-Uscio, la Campomorone-Bocchetta, la Voltri-Turchino. Tutti in salita, emozionanti e pericolosi. Lì Vittorina Massano ha dimostrato di essere brava: prima classificata per tre volte nella classe 125 e piazzata nelle prime posizioni, davanti a molti uomini, in decine di altre gare dal 1952 al '58, anno in cui si è sposata con un corridore motociclista ed ha cessato di correre per fare la mamma. Minuta, ma di forte carattere e molto determinata, ha lasciato un vivo ricordo in chi ha avuto la fortuna di vederla sfrecciare al rombo della sua Mondial. Un manico, come si diceva allora.

Perché o pàn invèrso o pòrta mâ

"Passando davanti ad una panetteria ho notato un pane capovolto e mi è affiorato alla mente il ricordo di qualcuno di casa, forse una mia nonna, che mi diceva che non si doveva mai mettere il pane capovolto in tavola. Non ricordo però che mi fosse stato detto il motivo di questo avvertimento, né credo di averlo mai chiesto io. Ora la mia curiosità si è riaccesa e sono andato a scavare nella memoria e fra i libri fino a trovare la storia vera e documentata, datata 1450 circa, che dà l'avvio a questa credenza. Ho fatto una scoperta inquietante: quello capovolto è il pane riservato al boia! Quindi, dopo oltre 500 anni, quest’usanza è giunta fino a noi, a testimonianza di come le storie ed i codici comportamentali non scritti del passato siano stati tramandati alle generazioni successive. Anche questa è una storia che vede protagonista la nostra Genova e la sua gente."

I traditoî da Repùbrica de Zêna

I traditori della Patria, dell’amicizia, dei parenti e dei benefattori sono collocati da Dante nel punto più profondo dell’inferno. I traditori della Patria, in modo particolare, sono da sempre considerati, fra tutti, i malfattori della peggior specie. Dante stabilì per loro, per la legge del contrappasso, una pena particolarmente azzeccata, quella di essere eternamente conficcati nel ghiaccio; questo perché in vita il loro cuore fu freddo proprio come un pezzo di ghiaccio. Nessuno di loro, vista l’abominevole colpa di cui si macchiarono, volle rivelare chi fosse in vita.

Le pene inflitte per tale colpa sono state, in ogni epoca, le più atroci. Esse, infatti, andavano oltre la pena di morte del colpevole perché ricadevano sui suoi beni, confiscati a favore della comunità, la sua casa, che veniva rasa al suolo, e i suoi figli, cacciati dalla patria per sempre. A volte venivano anche apposte, dalle autorità, lapidi di grandi dimensioni e a chiare lettere, a perenne ricordo di tale grande ignominia. Così è avvenuto anche a Genova nel corso dei secoli.

O Dragut, l’amiràlio pirâta

"Dragut, considerato dai suoi un grande ammiraglio e un condottiero nato, era soprannominato “La spada vendicatrice dell’Islam”. Per i cristiani, invece, è stato un pirata sanguinario, forse il peggiore che il Mediterraneo abbia mai visto: per tutta la vita combatte una guerra corsara per conto dell’Impero Ottomano. Ingaggia battaglie con le navi da guerra cristiane, intrecciando la sua storia con quella di Andrea Doria. Intercetta le navi mercantili, se ne impadronisce insieme al carico, ne cattura i marinai, riducendoli a schiavi o rematori e costringendoli a convertirsi all’Islam per avere in cambio la vita. Saccheggia e distrugge tante città delle nostre coste.

Verrà catturato da Giannettino Doria, quindi ridotto ai remi per quattro anni ma poi, riscattato dal Barbarossa, tornerà a combattere la cristianità e le sue scorrerie ritorneranno nelle nostre coste, da Sanremo a Monterosso.

Pare ci fosse una specie di stima fra Andrea Doria e Dragut, entrambi ammiragli, entrambi combattenti per due importanti sovrani, Carlo V e Solimano il Magnifico, dai quali ricevevano enormi compensi per le loro vittorie. Su questo accordo non scritto si basa la storia che vi racconto oggi."

A Çìmma, stöia, rîti e segrêtti - “La cima, storia, riti e segreti”

Se il pesto è il re della nostra cucina, la cima ne è di certo diventata la regina. Partita da una semplice tasca di carne di vitello piena di avanzi dei giorni precedenti, frattaglie e moltissime materie di recupero, è diventato un piatto buonissimo, laborioso a farsi e molto presente nei pranzi delle più importanti ricorrenze dei liguri. La difficoltà di esecuzione della ricetta consiste nel porre attenzione a che, durante la cottura, la sacca non scoppi, per la crescita di volume del ripieno in essa contenuto, e che questo non si riversi rovinosamente nel brodo di cottura. Per scongiurare quest’evento, segreti nella sua esecuzione e riti scaramantici, da sempre accompagnano, nelle parole di poeti e cantanti, la complessa storia di questa pietanza. Il fatto che ormai sia raro confezionarla in casa e sia sempre più frequente acquistarla bella e pronta, non ne appanna il fascino.

A Croxâ di figeu de l’ànno 1212

Oggi Giorgio Oddone ci parla della Crociata dei Fanciulli, una storia poco nota ambientata nel 1212.

"Nel maggio del 1212 un pastorello dodicenne di Châteaudun nell’Orleans di nome Etiènne si presentò alla corte del Re di Francia Filippo II affermando che Cristo, con una lettera consegnatagli di persona, gli ordinava di raccogliere fedeli per una crociata. Ovviamente non venne creduto e allora iniziò a predicare in pubblico la sua missione davanti alla porta di una chiesa. Prometteva che i mari si sarebbero aperti davanti a loro, come aveva fatto il Mar Rosso con Mosè, e che sarebbero così arrivati a piedi fino in Terra Santa. Raccolse tantissimi proseliti fra i fanciulli. Contemporaneamente un movimento identico sorse in Germania ad opera di un altro pastorello, di nome Nikolaus. Il gruppo si diresse a Genova per vedere il mare aprirsi ma, poiché il miracolo non avveniva, tanti tornarono a casa, alcuni andarono a Roma, altri si dispersero, molti moriranno in seguito di stenti. Anche i piccoli crociati francesi, arrivati a Marsiglia, non videro il mare aprirsi. Alcuni presero la via del ritorno ma molti rimasero ad aspettare in riva al mare finché due mercanti marsigliesi si offrirono di aiutarli. Contenti i fanciulli partirono, imbarcati su sette navi. Due di queste affondarono, i superstiti furono consegnati dai mercanti di Marsiglia ad alcuni musulmani che li vendettero come schiavi. Una triste storia nata dalla vana speranza di uscire dalla miseria con un sogno."

In lîtr’e mæzo de tranvài

Giorgio Oddone ci propone oggi un altro pezzo della storia di Genova "I tram da un litro e mezzo"

"Il video è un tuffo nella storia dei nostri tram. Si sofferma ad osservarli nel primo decennio del secondo dopoguerra. Allora la grave mancanza di motrici, danneggiate o distrutte nei depositi dai bombardamenti, imponevano all’amministrazione genovese di ingegnarsi per far sì che quelle poche vetture restanti potessero bastare ad una città che stava vivendo anche una vistosa crescita dei suoi abitanti. Nasceva anche il famoso detto “attaccati al tram”, che non era un semplice modo di dire, ma il modo di essere trasportati gratuitamente, senza passare sotto le forche caudine del controllore. Insomma le poche motrici rimaste dovevano per forza trasportare più passeggeri di prima. Occorreva quindi renderle più capienti utilizzando il materiale rotabile che poteva essere recuperato. La necessità, l’ingegno e la fantasia, sono riuscite a raggiungere lo scopo. Ecco allora che cominciano a circolare tram con un carrello appendice di un solo asse a rimorchio, subito battezzato dai genovesi “Lambretta, Gallinaio, Un litro e mezzo” e poi ancora due motrici unite assieme da un carrello sospeso che raggiugevano la lunghezza di ben 20 metri e potevano trasportare 170 passeggeri. In questo caso, trattandosi di due vetture lunghe ed una piccola, il soprannome “Due camere e cucina” era assolutamente appropriato. Penso che il caratteristico suono della campana a pedale del tram sia rimasto nei ricordi e nel cuore di tanti genovesi assieme al viaggio dell’ultimo tram il 27 dicembre del 1966."

Share this page