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Alberto Manzi

Marino Muratore, ideatore e curatore della rubrica

 

La rubrica “Una settimana con...,” iniziativa del Sistema Bibliotecario Urbano, ha come protagonista della settimana Alberto Manzi (Roma 1924-Pitigliano 1997), bravissimo scrittore di libri per l’infanzia, maestro elementare nelle carceri minorili durante il dopoguerra, volontario nella selva amazzonica peruviana ed ecuadoriana dove ha insegnato a molti indios a leggere e scrivere. Alberto Manzi è famosissimo per aver condotto sulla Rai dal 1960 la fortunatissima trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi”, un programma concepito come strumento di ausilio all’analfabetismo. Alberto Manzi riproduceva in televisione delle vere e proprie lezioni di scuola primaria, con metodologie didattiche innovative dinanzi a classi composte da adulti analfabeti o quasi. 
Alberto Manzi è uno dei più importanti autori italiani per l’infanzia e ha pubblicato più di 70 libri, tra i quali: “Grogh, storia di un castoro” (premiato nel 1948 con il premio "Collodi" e tradotto in 28 lingue) Orzowei (vincitore premio Internazionale “H.C. Andersen” e tradotto in 32 lingue). Notevole successo ottennero anche i tre romanzi ambientati in Sudamerica “La luna nelle baracche” (1974), “El Loco” (1979), “E venne il sabato (2005) ”. 

 

 

Biografia 

L’esperienza della guerra in marina lo cambierà profondamente influendo in modo decisivo sulla scelta di dedicarsi all’educazione e di fare il maestro.

Finita la guerra, si laurea prima in Biologia alla Facoltà di Scienze dell’Università di Roma, poi in Filosofia e Pedagogia con il prof. Luigi Volpicelli, che lo vorrà come assistente a dirigere la Scuola sperimentale del Magistero di Roma nel 1953. Manzi farà questa esperienza per un anno e poi l’abbandonerà, preferendo la scuola elementare.  Dal 1946 al ’47 Manzi viene “sbattuto” a insegnare nel carcere minorile “Gabelli” di Roma dove condusse la prima esperienza come educatore. È l’anno scolastico 1946-1947. Manzi deve insegnare a circa 90 ragazzi fra i 9 e i 17 anni (perché al 18° anno di età passavano al carcere di Regina Coeli) con alfabetizzazioni e storie differenti, in un’enorme ‘aula’ senza banchi, sedie, libri, senza niente. L’ambiente è durissimo. Quattro insegnanti prima di lui avevano rinunciato… Il gruppo è difficile, però Manzi riesce a guadagnarsi l’attenzione dei ragazzi iniziando a raccontare la storia di un gruppo di castori che lottano per salvare la propria libertà. I giovani carcerati scrivono insieme la storia e la portano pure in scena. Il gruppo è ormai coeso: anche grazie alla fiducia del direttore del carcere e del sacerdote. I ragazzi pubblicano un giornale, La Tradotta, il primo giornale fatto in un carcere. Dal lavoro svolto coi ragazzi Manzi rielaborerà in seguito il suo primo romanzo, Grogh, storia di un castoro, che ottiene nel 1948 il Premio Collodi e che verrà poi tradotto in 28 lingue.

Di tutti quei ragazzi, quando sono usciti dal carcere, solo 2 su 94, così mi fu detto, sono rientrati in prigione”. Alberto Manzi nel suo mestiere d’insegnante riversava entusiasmo, metodo, volontà di sperimentare, di rimettere continuamente tutto in discussione, in gioco. Non fu invece mai entusiasmante il suo rapporto con l’istituzione e la gerarchia scolastica. Nel 1954 Manzi scrive “Orzowei” che vince il Premio “Firenze” e il Premio internazionale “H.C. Andersen”. Orzowei viene tradotto in 32 lingue, diventando un clamoroso successo internazionale. Nel 1980 la Rai, ne ricava 13 puntate per una riduzione televisiva e una versione cinematografica. Nell’estate del 1955 Manzi, che è anche studioso naturalista, riceve dall’Università di Ginevra un incarico per ricerche scientifiche nella foresta amazzonica.

Queste furono alcune delle sue parole sull’esperienza: “Vi andai […] per studiare un tipo di formiche, ma scoprii altre cose che per me valevano molto di più. Scoprì la dura vita dei nativos tenuti nell’ignoranza perché fossero più deboli e il loro lavoro meglio sfruttabile".

Tutte le estati, per oltre 20 anni, Manzi si recò nella foresta amazzonica per insegnare a leggere e a scrivere agli indios; da solo, con studenti universitari e poi con l’appoggio di missionari Salesiani. Diede anche impulso a cooperative agricole, indirizzò i contadini verso piccole attività imprenditoriali. Accusato dalle autorità di essere un “guevarista” collegato ai ribelli, fu anche imprigionato e torturato; nonostante fosse dichiarato “non gradito” continuò ad andare clandestinamente, fino al 1984. Le sue esperienze sudamericane rivivono in tutta la loro densa realtà nei romanzi La luna  nelle baracche (1974), El loco (1979), E venne il sabato (2005).

Nel 1960 Alberto Manzi viene mandato dal suo direttore didattico a fare un provino alla Rai: stavano cercando un maestro per un nuovo programma per l’istruzione degli adulti analfabeti; viene scelto e gli viene affidata la conduzione di Non è mai troppo tardi, trasmissione che durerà fino al 1968. La cosa incredibile è che Manzi, durante il "provino" per scegliere il conduttore della trasmissione televisiva, strappò il copione che gli era stato dato e improvvisò una lezione alla sua maniera e che risultò essere la migliore.  Si stima che quasi un milione e mezzo di persone abbiano conseguito la licenza elementare grazie a queste lezioni a distanza, svolte di fatto secondo un vero e proprio corso di scuola serale. Le trasmissioni avvenivano nel tardo pomeriggio, prima di cena; Manzi utilizzava un grosso blocco di carta montato su cavalletto sul quale scriveva, con l'ausilio di un carboncino, semplici parole o lettere, accompagnate da un accattivante disegnino di riferimento. Usava anche una lavagna luminosa, per quei tempi assai suggestiva. La Rai Eri, casa editrice della Rai, pubblicava materiale ausiliario per le lezioni, quali quaderni e piccoli testi.

 Non é mai troppo tardi è considerato uno dei più importanti esperimenti di educazione degli adulti, conosciuto e citato nella letteratura pedagogica internazionale, del tutto innovativo nell’impianto organizzativo, nello stile di conduzione e nel linguaggio didattico. Indicato dall’Unesco come uno dei migliori programmi televisivi per la lotta contro l’analfabetismo, nel 1965, al congresso internazionale degli organismi radio-televisivi che si tenne a Tokyo, ricevette il premio dell’UNESCO.

Non insegnavo a leggere e scrivere: invogliavo la gente a leggere e a scrivere” ha detto Alberto Manzi della famosissima trasmissione con cui, possiamo dire, sia diventato “il maestro degli italiani”. Non è mai troppo tardi venne conosciuto e imitato come format televisivo da altri Paesi, in particolare dell’America Latina. Nel 1950 Manzi ideò Il vostro racconto, un romanzo da scrivere insieme alla radio, a puntate, con i contributi narrativi dei giovani ascoltatori, intitolato Il tesoro di Zi’ Cesareo di cui lui aveva scritto il capitolo iniziale.

Manzi aveva compreso assai per tempo le potenzialità del mezzo radiofonico: efficace partner didattico e scientifico, ideale per stimolare fantasia e creatività, il limite del non vedersi che diventa opportunità di suggestioni, di promozione per i libri e la lettura, di conoscenza e approfondimento della lingua italiana. Per la radio Manzi fu autore e conduttore di trasmissioni, scrisse e rielaborò favole per bambini, testi scientifici, didattici e culturali, sperimentò il mezzo radiofonico con i giovanissimi nonché con gli adulti, gli italiani emigrati e i loro figli. E proprio le 40 trasmissioni di Curiosità della lingua italiana, nel 1996, per gli italiani all’estero e gli stranieri studiosi della nostra lingua, diventeranno la sua ultima collaborazione Radio-Rai.

In quegli anni Alberto Manzi pubblica moltissimi romanzi e fiabe per ragazzi, testi didattici e saggi tra i quali: Gli animali, I dominatori dell’Aria, I misteriosi serpenti, gli animali e il loro ambiente, Gli animali intorno a noi, La Bibbia vista dai ragazzi, Insieme (corso di  lingua per stranieri). Dal 1976 pubblica anche la collana di favole che contiene tra gli altri: Crieck la curiosa, il mistero della macchina nera, Tiak la volpe, Zupack azzurro, Zupack rosso, Zupack verde (libri quasi giornali per bambini, tutti tradotti in svedese, norvegese e francese). È stato compagno di scuola e amico di Domenico  Volpi (un personaggio che ha dato un contributo fondamentale alla letteratura giovanile e per l’adolescenza, e che aveva richiesto al “ maestro si tutti gli italiani” di collaborare nel giornale per ragazzi Il Vittorioso). Volpi e Manzi hanno pubblicato insieme una collana di libri per far conoscere le meraviglie delle province italiane con la casa editrice AVE . Su invito del Governo Argentino e per conto dell’UNESCO, Alberto Manzi tiene un corso di 60 lezioni presso il Ministero della Giustizia ed Educazione a Buenos Aires sull’utilizzazione della radio e della televisione per l’alfabetizzazione, per l’aggiornamento dei docenti, per un’educazione permanente. Per aver applicato le metodologie e le tecniche suggerite, la Repubblica Argentina ricevette nel 1989 il riconoscimento dell’ONU e un premio internazionale per la migliore soluzione adottata per l’alfabetizzazione in tutto il Sud America.

Nel saggio del prof. Angelo Nobile, Storia della letteratura giovanile dal 1945 a oggi, edizioni Scolé, 2020, a pagg. 19-20 si afferma rispetto all’attività letteraria di Alberto Manzi:

“…Accanto all’impegno a favore degli  “ultimi”, caratteristica di questo autore, ben evidenziata dal critico letterario Daniele Giancane, è l’assenza del lieto fine classicamente inteso. Per Manzi la conclusione positiva consiste nel sacrificio dell’eroe per un più alto ideale umanitario e sociale, foriero di salvezza o di riscatto per la sua comunità, o realizzazione di superiori ideali di pace tra collettività divise dal pregiudizio e dall’odio. Infatti lo scrittore era convinto che un happy end edulcorato di stampo disneyano anestetizzi le coscienze e impedisca di acquisire consapevolezza dei problemi e di agire conseguentemente per il riscatto e la dignità del singolo e della collettività”.

 

El Loco

Alberto Manzi e il Sudamerica

Alberto Manzi finita la seconda guerra mondiale (durante la quale aveva combattuto come sommergibilista nel battaglione S. Marco a fianco delle Forze Alleate per la liberazione dell’Italia) si laurea in Biologia e poi in Filosofia e Pedagogia a Roma. Dopo i primi anni di insegnamento anche in carcere minorile, nell’estate del 1955 Manzi riceve dall’Università di Ginevra un incarico di partire per la foresta amazzonica per studiare la famosa “formica tangarana”. Alberto Manzi scopre che quella particolare formica era usata dal regime peruviano nelle torture di contadini e ribelli. Il sistema consisteva nel cospargere la vittima con il miele, legandola poi a un albero e facendola divorare dalla “tangarana”, che è un insetto particolarmente vorace. Durante la permanenza in Amazzonia, Alberto Manzi passa quindi da un’intenzione iniziale naturalistica, anche per i finanziamenti ricevuti, alla scoperta di una realtà umana che è assolutamente travolgente e che diventerà una passione per il resto dei suoi giorni. Tutte le estati, per oltre 20 anni, Manzi si recò in Amazzonia per insegnare agli indios a leggere e scrivere. I primi anni lo farà da solo, poi con studenti universitari e infine con l’appoggio dei missionari Salesiani. In tutti quegli anni, Alberto Manzi diede anche impulso per la creazione di cooperative agricole, indirizzò i contadini verso piccole attività imprenditoriali. Accusato dalle autorità di essere un “guevarista” collegato ai ribelli, fu anche imprigionato e torturato. Nonostante fosse dichiarato “non gradito” continuò ad andare clandestinamente, fino al 1984, collaborando con i missionari cattolici. Delle sue relazioni e attività volontarie in Sudamerica, Alberto Manzi ne parlava molto raramente. Secondo il prof. Antonio Melis dell’Università di Siena i motivi erano vari. Il primo era dovuto al fatto che le zone dove prestava attività erano sottoposte al duro controllo della dittatura peruviana: rivelare nomi e contatti significava sottoporre i suoi amici al rischio di cattura e tortura. Un'altra spiegazione consisteva nel fatto che Manzi amava agire il bene in silenzio, senza divulgare il suo operato, proprio come facevano i sacerdoti missionari suoi punti di riferimento.

Della sua attività in Sudamerica abbiamo però testimonianze grazie alle persone che ha incontrato e grazie agli appunti di cronaca che inviava al suo ex-compagno di scuola e grande amico Domenico Volpi, cronache che venivano poi pubblicate sul giornale per ragazzi “Il Vittorioso”.

Alberto Manzi in Sudamerica fu soprattutto un maestro elementare che comprese fin da subito la necessità di imparare il quechua, la lingua degli indios, se voleva insegnare a leggere e scrivere. Era anche un bravo scrittore (oltre ad essere un ottimo maestro, biologo, divulgatore televisivo) e così decise di raccontare il meraviglioso mondo sudamericano, denunciando anche i danni provocati dalla dittatura, pubblicando una trilogia di romanzi: La luna nelle baracche (1974), El loco (1979), E venne il sabato (2005).

Il suo rapporto con l’Amazzonia e il Perù durò tutta la vita. Gli capitò poi, su invito del Governo Argentino e per conto dell’UNESCO, di tenere un corso di 60 lezioni presso il Ministero della Giustizia ed Educazione a Buenos Aires sull’utilizzazione della radio e della televisione per l’alfabetizzazione, per l’aggiornamento dei docenti, per un’educazione permanente. Per aver applicato le metodologie e le tecniche suggerite, la Repubblica Argentina ricevette nel 1989 il riconoscimento dell’ONU e un premio internazionale per la migliore soluzione adottata per l’alfabetizzazione in tutto il Sud America.

Il romanzo “El Loco”

Il romanzo è ambientato in un altipiano delle Ande e ha come protagonista le vicende che succedono a San Sebastian, un pueblo peruviano. Gli abitanti del paese andino hanno due possibilità per sopravvivere: lavorare come contadini nelle terre comunali o come operai per la Compagnia Mineraria che è di proprietà dei “bianchi” che però non vivono nel villaggio. Tutti i posti di potere del paese sono occupati da bianchi che lo esercitano sempre con prepotenza. Sono il prefetto, il giudice, l’avvocato e il curato. Da sempre però il pueblo ha delle regole condivise che esaltano la vita comunitaria e impediscono i conflitti.

Infatti “la comunitad” gestisce, come eredità sacra lasciata dagli avi, tutti i terreni agricoli. Le varie famiglie hanno in gestione campi da coltivare che cambiano, secondo una rotazione regolare che fa sì che ognuno a turno abbia il terreno migliore. Una parte dei campi restano di proprietà esclusivo della comunitad e sono lavorati da tutti i contadini. Quei terreni sono necessari per la sopravvivenza del pueblo che usa i proventi per aiutare le famiglie colpite da disgrazie, compiere i lavori necessari di ripristino in casi di calamità naturale o siccità. Tutto procede serenamente nel pueblo fino a quando la compagnia mineraria scopre che le terre comunali nascondono nel sottosuolo preziosi minerali. I rappresentanti dei bianchi cercano, attraverso l’opera del prefetto e del giudice, a convincere l’alcalde (ovvero il Sindaco) a cedere i terreni comuni. La comunità rifiuta le offerte economicamente vantaggiose per due motivi: il primo perché non vuole rompere un equilibrio lasciato in eredità dagli avi, il secondo perché molti elementi suggeriscono che non ci si possa fidare delle promesse fatte dalla Compagnia Mineraria. Il passo successivo dei rappresentanti della compagnia è di ottenere i terreni desiderati attraverso pressioni legali. I bianchi coinvolgono anche onorevoli che arrivano dalla capitale per abbindolare la comunitad con promesse vane e cercando persino di corrompere l’integerrimo sindaco. Non riuscendo nell’obbiettivo per l’ostinazione del popolo, il sistema di potere decide di usare la violenza. Contadini, anziani, persino innocenti bambini trovano una ingiusta morte. Neanche con l’intervento militare la compagnia mineraria riesce a raggiungere l’obiettivo sognato e quindi prova a utilizzare la “finta magia”. E così all’improvviso una notte compare dal nulla un lungo filo spinato che divide i campi dal villaggio, diventando ogni giorno sempre più lungo e inquietante. Dopo un periodo di scoramento degli abitanti, un’anziana segreto sacrifica la propria vita, facendo scoprire al villaggio che soldati vestiti di nero mettevano di notte altro filo spinato per impedire di raggiungere torrenti e sorgenti, privando il pueblo anche dell’acqua da bere. Di fronte all’ennesima sconfitta, la Compagnia riuscirà a conquistare i terreni per la nuova miniera, complice un bombardamento con mortai che distruggerà gran parte del villaggio. La dittatura, almeno in apparenza, ha vinto.

processo violento che la comunità ha subìto nel romanzo, in realtà non ha dato frutti sterili. San Sebastian (villaggio ribattezzato dagli abitanti in Tiuna, nome che significa nella lingua locale “luce dell’alba”) era all’inizio un popolo di indios sottomessi, che obbedivano agli ordini del giudice, del prete, del prefetto e senza porre mai domande. Le ingiustizie subite diventano ogni volta di più occasioni di riflessione per i contadini e minatori che si confrontano sul senso della vita, sui valori della società, sulla dignità umana. percorso di crescita non è solo individuale ma soprattutto comunitario.

Nel suo romanzo Alberto Manzi crea tre meravigliosi personaggi di riferimento che giocano un ruolo importante nella conquista dei diritti civili: El loco, la giovane Vita e il maestro in pensione.

El loco è un uomo che non si sa da dove venga, quale sia il vero nome e il suo passato. Trascorre ore avvolto nella sua sporca coperta, gettando senza sosta dei sassi dentro un barattolo posto a notevole distanza. Nel corso dei capitoli però l’uomo assume sempre maggior importanza nella vita del pueblo che scoprirà che il Loco sa leggere e scrivere, recitare, danzare, suonare il flauto, ma soprattutto è abile nel trovare soluzioni in ogni situazione di difficoltà grazie alla infinita creatività che possiede. Senza mai prendersi alcun merito suggerisce ogni volta al sindaco e agli abitanti metodi originali per superare le provocazioni dei potenti, senza mai rispondere alla violenza. Gli onorevoli arrivati dalla capitale comprendono che è lui l’elemento pericoloso che ostacola i loro progetti malvagi e quindi decidono di farlo ricoverare in manicomio. Le pagine del romanzo sul manicomio sono terribili, soprattutto quando descrivono gli esperimenti che vengono fatti da medici criminali su un bambino povero e senza famiglia. Alberto Manzi sapeva bene che una civiltà si misura anche dalle condizioni offerte dallo Stato nelle carceri e negli ospedali psichiatrici. Per fortuna El Loco riuscirà a parlare al cuore di un infermiere che lo aiuterà a fuggire dal manicomio insieme al bambino: i due quindi ritorneranno a Tiuna.

Il secondo personaggio di riferimento è il maestro in pensione che compare a metà del libro. È una figura fondamentale che è presente in tutti i tre libri del ciclo sudamericano di Alberto Manzi ed è forse una trasposizione dell’autore stesso. Saper leggere e scrivere, essere in grado di farsi le proprie ragioni davanti giudici e onorevoli, diventa elemento essenziale perché il popolo sappia difendere i propri diritti. Il maestro poi mette a disposizione gratuitamente il suo sapere in modo che più persone sappiano tenere testa ai potenti.

La terza persona meravigliosa del libro è Vita, una ragazza di quindici anni (età da marito nel pueblo) che sarà la prima donna della regione a rifiutare un matrimonio combinato semplicemente perché ha deciso che si sposerà solo il giorno che troverà l’amore. Vita riuscirà anche a convincere gli uomini sulla necessità che anche le donne della comunità partecipino e votino le decisioni del villaggio. Inoltre la ragazza (soprannominata Belzebù) riesce persino a tenere testa alle parole del sacerdote, strumento obbediente in mano del prefetto, del giudice, dei potenti. Il percorso di crescita della ragazza ribelle troverà una sponda paterna nell’amicizia con il “Loco” che l’aiuterà a ritrovare anche la sua dolcezza femminile.

Un libro meraviglioso da leggere e rileggere, fino all’ultima pagina quando l’inaspettato arrivo di un medico straniero regalerà al villaggio una nuova speranza.

 

Orzowei

 

 

Nel 1955 Alberto Manzi pubblica il suo capolavoro, ovvero il romanzo Orzowei che nel 1977 venne adattato per uno sceneggiato di successo della Rai.

La storia raccontata in questo libro per ragazzi, ma non solo per loro, contiene quello stesso spirito istruttivo che aveva portato il maestro Alberto Manzi a creare e presentare la trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi”. Il desiderio dell’autore è insegnare qualcosa al lettore, trasmettendo un chiaro messaggio di uguaglianza e di rispetto tra i popoli il cui concetto cardine è la normalità della diversità. Attraverso le vicissitudini del giovane protagonista Isa, soprannominato Orzowei, l’autore mostra l’incapacità degli esseri umani di accettare e rispettare le differenze etniche, il rifiuto ad abbandonare i bestiali istinti di prevaricazione e l’atavica ricerca di un nemico da abbattere. È dunque questa una storia di razzismo, e sul razzismo, e dell’incessante conflitto tra i popoli che pur attraversando le epoche e le più disparate circostanze eternamente affliggono il cammino dell’umanità con le loro guerre, repressioni e tentativi di supremazia gli uni sugli altri.

Orzowei è il soprannome che è stato dato al bambino protagonista del romanzo, che in realtà si chiama Isa, dalla tribù Swazi africana con la quale vive fin da piccolo. Orzowei significa nella lingua locale “il trovato” ed è stato dato a Isa in quanto trovato ancora neonato, avvolto da una fascia rossa in una cesta appesa a un grosso ramo, nella foresta da Amunai, un guerriero del villaggio.

A causa della sua pelle bianca, Isa è scacciato e selvaggiamente picchiato dai suoi coetanei che lo chiamano all’ossessione “Orzowei”.

Il ragazzo, quando compie dodici anni, è chiamato a superare il rito d’iniziazione della tribù Swazi e viene immerso in un pentolone che colora la sua pelle di bianco avorio. Solo quando la pelle tornerà del colore naturale di Isa, lui potrà tornare dalla foresta alla tribù ed essere considerato un valoroso guerriero. Isa trascorre così molte lune nella foresta combattendo con un leopardo, dormendo sugli alberi, procurandosi cibo di fortuna. Durante il percorso iniziatico i coetanei swazi, capeggiati dal malvagio Mesei, cercano Isa nella foresta perché desiderano la sua morte.

Per fortuna Isa è aiutato da Pao, il grande capo del piccolo popolo dei Boscimani, che lo accoglie e lo considera come un figlio, nonostante appartenga a un popolo nemico, sia come swazi che come bianco. Pao, che ha una visione pacifica del mondo e desidera che tutti i popoli vivano in perfetta armonia nella foresta, insegna molti segreti al ragazzo perché possa sopravvivere a ogni difficoltà. Una volta tornato al villaggio swazi, avendo superato la prova per divenire guerriero, Isa viene sorprendentemente rifiutato dalla tribù.

A Isa non rimane che tornare a vivere con i boscimani, “il popolo dei cespugli”, che lo accolgono tra loro ancora una volta con amore. Il capo Pao comprende però la ferita interiore del ragazzo e lo invita, dopo tre anni di vita tra i boscimani, a cercare le sue origini nel mondo dei bianchi. Il dramma è però che anche gli emigrati olandesi in Africa ripudiano Isa e lo considerano un selvaggio, chiamandolo con il termine dispregiativo “cafro”, che significa “infedele”. La sua infelice sorte è dunque quella di essere considerato come un eterno intruso, simbolo del “diverso”. Ogni volta  poi è un soprannome dispregiativo a definire la non accettazione di un mondo che Isa desidera amico.  Questa condizione di rifiutato diventa però anche una occasione di crescita e obbliga Isa a un percorso di accettazione di sé e di lotta alla conquista del proprio posto nel mondo.

Alberto Manzi crea nel romanzo anche tra i bianchi una figura positiva (come lo sono tra gli swazi il guerriero Amunai e la sua vecchia nutrice Amebais) ed è il commerciante Paul, chiamato da Isa romanticamente Fior di granoturco. Capito il valore di Isa, l’uomo decide così di adottare il ragazzo tra i boeri olandesi. Isa, infatti, è un ragazzo buono che ama fare il bene, senza mai guardare il colore della pelle.  Per questo motivo salva una bambina olandese dal morso di un serpente, aiuta Flippo il ragazzo rimasto inabile in seguito ad un incidente, salva il suo acerrimo nemico Mesai da un pitone che lo stava stritolando, nonostante quest’ultimo provi in tutti i modi e senza riconoscenza alcuna a uccidere l’Orzowei.

Come in altri romanzi di Alberto Manzi, il protagonista Isa sacrifica la sua vita in battaglia per salvare tutti i suoi amici e soprattutto per testimoniare la necessità della pace tra i popoli della foresta.

La narrazione è dura, cruda, violenta a tratti e non risparmia nulla a Isa e così al suo lettore. Orzowei è un romanzo di altri tempi, quando si stava molto meno attenti nel raccontare ai ragazzi le difficoltà che presenta il mondo che ci circonda. Nel complesso la narrazione riprende il modello al tempo stesso del romanzo d’avventura di stampo salgariano e quello del romanzo di formazione alla Kipling. Il tutto scientemente e magistralmente calato in un’ambientazione africana creata appositamente per rovesciare ogni tipo di stereotipo. Attraverso la costruzione di personaggi adulti positivi in ogni etnia, Alberto Manzi vuole inoltre sottolineare che in ogni popolo esistono costruttori di pace, uomini non amati dai più, ma fondamentali per la creazione di un mondo nuovo.

Un libro che credo sarebbe opportuno ritornare a rileggere in classe, e non solo.

La serie televisiva RAI degli anni '70 era stata suddivisa in tredici puntate ed ottenne un incredibile successo, ma non è stata mai ritrasmessa. Sembra che un incendio abbia distrutto le pellicole originali RAI, relegando questa serie tra i nostri ricordi più belli e impedendone la fruizione alle nuove generazioni. Restano però i link su You Tube, recuperati in una versione diffcilmente trasmissibili a livello televisivo.

 

libri nel catalogo bi.G.met.

 

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